Mo' so Sommelier fernuto
Solo per condividere la gioia con voi: dopo tre anni di studi esami, e 'mbriacature,, da ieri sono Sommelier Professionista...e pensare che tutto è iniziato con le serate in compagnia di Ciro e Ciccio ad ascoltare le dissertazioni di Nino Iaia sul Rubrato dei Feudi di San Gregorio. Vi saluto con una piccola storia che ho scritto qualche anno fa:
Isabella e il vino
Erano gli anni in cui a Napoli, la mia città, nascevano più wine bar che bambini, tutti i miei amici per essere fighi argomentavano di malolattica e di glicerolo, io da laureando tecnologo alimentare potevo permettermi di fare la mia porca figura, ma mi trattenevo… il vino è anche sensazioni e lo devi saper raccontare.
Isabella era seduta di spalle, ma la sua presenza, entrando in quella vineria di Pozzuoli, la notai subito, tanto che diventarono rumore le frasi sconnesse sul barolo chinato provato di recente da Ciccio (Francesco è un tipo che non puoi non chiamare Ciccio). Fissai per minuti i suoi capelli neri, le cadevano sul collo in boccoli non trattenuti dalla forcina etnica usata per raccoglierli, qualcuno interruppe quella mia contemplazione “Oh, allora che proviamo stasera?”
Ci misi un po’ a ridestarmi, dissi che avevo sentito parlare un gran bene di un Rubrato di non so quale Feudo, c’era la fonduta per accompagnarne la degustazione, la mia proposta fu accolta nonostante il prezzo che per le nostre tasche era tutt’altro che esiguo.
Isabella l’avevo conosciuta qualche mese prima, amica di amici, studiava portoghese all’Orientale e il suo sorriso aveva la forza coinvolgente della Capoeira. Era da un po’ che non la vedevo, dubitavo si ricordasse di me. Ciccio come al solito intratteneva il resto della combriccola con la solita magia degli archetti sulla parete del bicchiere, della loro densità e della loro lentezza nel ricadere, seguivo con lo sguardo gli archetti formatisi nel mio bicchiere ricongiungersi con il rosso brillante del Rubrato.
“Allora, ecco il nostro bravo tecnologo alimentare” vaghe note di una bossanova si affollarono nella mia testa, Isabella mi sorrideva con il suo bicchiere tra le mani? “Che bevi?” risposi annaspando un po’ sulla b, “un fragolino”; ecco, non so cosa mi passò per la testa, mi chiedo ancora il perché di quella scelta infausta, ma non seppi far altro che attaccare una pippa pazzesca sul fatto che il fragolino non è un vino, ovvero è un vino, ma se si legge bene sulla bottiglia c’è scritto: prodotto a base di vino, perché in Europa non è consentito vinificare specie diverse dalla Vitis Vinifera e l’uva fragola è una varietà d’uva risultante da un incrocio con la Vitis labrusca americana per cui la bibita che lei stringeva tra le mani non derivava dalla premitura dell’uva fragola, ma dall’aromatizzazione di un vino di infima qualità, al termine di quella assurda tiritera, che non so quanto sia durata, notai che tutti gli amici che prima sedevano con me, si erano alzati ed ora ballavano negli spazi angusti intorno ai tavoli centrali della vineria.
“E tu, non balli?” fece Isabella ancora scossa dalla lezione sul fragolino appena ascoltata.
“No, preferisco di no.”
“Peccato!” fa lei e si allontana donandomi il più bello dei suoi sorrisi, l’ultimo.
Rimasi qualche secondo immobile nel vano tentativo di dare un punteggio alla mia imbranataggine, bevvi l’ultimo sorso di vino rimasto ad ossigenarsi nel mio bicchiere, percepii l’astringenza dei tannini, lasciai una banconota sul tavolo e uscii dal locale.
E’ passato qualche anno da allora e nel mio lavoro di consulente per imprese agricole e agrituristiche ne ho viste di aziende, di produttori; il vino campano oggi raccoglie i frutti di chi negli anni ha lavorato duramente per sfuggire alle tendenze globalizzatrici, in difesa dei vitigni autoctoni, a tutela del territorio e della nostra cultura.
Oggi posso dire di apprezzare veramente il vino, comprendendo il lavoro duro che si cela dietro un buon bicchiere, di questo devo ringraziare Antonio o meglio Mast’Antonino, un contadino di quelli di una volta, sempre con la battuta e la bottiglia da stappare pronta, è stato lui ad affascinarmi con nomi di vitigni misteriosi e antichi: palluccella, zizza ‘e vacca, caprettone, sciascinosa e poi ancora S.Anna, San Nicola, San Lunardo testimonianze di una cultura che da sempre si è affidata al sacro per la protezione delle messi e dei raccolti.
E’ stato Mast’Antonino a donarmi un po’ di quella cultura popolare divenuta saggezza con il passare delle stagioni e dei secoli, lui che i detti antichi li cita come un latinista può citare Ovidio, lui ancora convinto che “O vino buono se venne senza frasca” cioè che il vino buono si venda senza etichetta, lui mi ha fatto capire che a nulla valgono le ore passate sui libri universitari se manca la passione e la dedizione per quello che si fa. Devo quindi ringraziare Antonio e chi come lui, si dedica con generosità alla viticoltura, in territori dove forse sarebbe più facile ed anche redditizio creare parcheggi o supermercati.
Devo ringraziare Antonio se ancora oggi, in un grappolo maturo di uva rossa, vedo i boccoli neri di Isabella e sento, nuovamente, suonare la bossanova.